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LETTERE A TITO, DIZIONARI DI ENRICO ARMOGIDA E L’ETIMOLOGIA DEL NOME CALABRIA: ECCO LE RELAZIONI DI GERARDO PAGANO E SALVATORE MONGIARDO

Un’opera che è, anzitutto, un appello etico a questo mondo che ha perduto la bussola e dice al mondo che a Sant’Andrea un tempo si viveva in pace, nel rispetto e nell’amore degli altri

di Domenico LANCIANO (www.costajonicaweb.it [1])

BADOLATO (CZ) –  10 MAGGIO 2023 –  Caro Tito, ritengo che possa essere utile riportare qui di séguito il testo della presentazione fatta nel Municipio di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (CZ) nel pomeriggio della domenica delle Palme 02 aprile 2023 dall’ex Preside prof. Gerardo Pagano di Soverato (paragrafo 1) e dallo scrittore dott. Salvatore Mongiardo (paragrafo 2) per i due volumi del DIZIONARIO ITALIANO- ANDREOLESE il cui Autore Enric Armogida aveva già pubblicato nel 2008 il DIZIONARIO ANDREOLESE ITALIANO. Durante tale evento il sindaco di Sant’Andrea ha donato una targa-premio all’Autore del Dizionario, prof. Enrico Armogida, con la seguente motivazione: << Amministrazione Comunale – Sant’Andrea Apostolo dello Jonio – Al Prof. Enrico Armogida per aver regalato gli strumenti con i quali conservare e tramandare la nostra identità >>.

Colgo l’occasione di questa “Lettera n. 467” per riportare al paragrafo 3 il breve testo di Salvatore Mongiardo (datato 7 maggio 2023) sulla interessante “Etimologia del nome Calabria”.

Una etimologia davvero lusinghiera per la nostra Terra.

Forse la più adatta al lussureggiante territorio che va dal Pollino a Capo Sud (Stretto di Messina). “Acqua che scorga” (abbondante) … Infatti, quando (negli anni 80) portavo in giro per la Calabria parenti, amici o turisti, costoro osservavano che questa nostra regione fosse assai abbondante di acque sgorganti da ogni dove. Zampilli dappertutto.

E’ il cosiddetto “oro blu” di cui però le istituzioni e le amministrazioni pubbliche non sembra vogliano o sappiamo o riescano a valorizzare adeguatamente come ricchezza e risorsa, così come il patrimonio boschivo.

In gran parte i Calabresi potrebbero essere davvero benestanti (persino ricchi) se ci fosse una gestione equa di tutto ciò che offre il territorio. Scusa, dimenticavo: dal 1860 siano una colonia e come tale siamo soggetti alla rapina continua di persone e risorse.

Siamo soltanto un’espressione geografica.

1 – GERARDO PAGANO

Ho accettato di buon grado l’invito di Enrico Armogida di dire qualche parola di presentazione della sua nuova fatica.

Già il 28 dicembre 2008 partecipai alla presentazione del suo Dizionario Andreolese-Italiano e rilevai l’originalità dell’idea di realizzare non solo un’opera di consultazione linguistica, con l’impegno del filologo, ma una sorta di sommario di cultura popolare, di “summa” di usi e costumi nei quali si svolgeva la vita contadina e paesana, pervasa di una religiosità connaturata e spontanea: quella religiosità che il nostro Campanella designava come “religio indita”.

Siamo nel quindicesimo anno da quella data e potremmo dire che si è compiuto il processo di omologazione culturale, che ha steso su quella vita contadina una sorta di patina, con gli scenari che si ripetono quasi uguali in tutte le contrade di questa nostra Italia.

Pasolini intuì e spiegò le ragioni e le conseguenze di quel processo: da un lato la diffusione sempre più pervasiva dei mezzi di comunicazione di massa, – oggi si dice social -, dall’altro, conseguentemente, la cancellazione delle identità culturali e sociali attraverso le quali si è svolta la storia del nostro Paese.

In questo lavoro questa identità vive non solo nelle parole del dialetto, ma anche nei saggi, nei profili biografici, nelle ricerche sugli usi e i costumi, che così sono diventate una vera e propria storia, secondo il criterio indicato dalla scuola degli Annales, come racconto degli avvenimenti, ma soprattutto degli aspetti sociali ed economici di una comunità.

Perché allora un nuovo dizionario e, questa volta con la prospettiva capovolta Italiano-Andreolese? Armogida lo spiega nelle pagine iniziali del Tomo 1: quel primo Dizionario era offerto a quanti avevano sempre pensato e parlato nel dialetto del loro Paese natale, come una sorta di rubrica, con la duplice funzione di conservare la memoria delle origini paesane e degli affetti parentali, e, insieme, consentire di partecipare consapevolmente e attivamente alla vita sociale del nuovo ambiente vissuto con la tensione di emigrati.

Perché dagli anni ’60 del secolo scorso si cominciò a realizzare una nuova realtà sociale italiana, alla quale diede un contributo essenziale il fenomeno migratorio, che ebbe anche una parte significativa di merito di quel cambiamento economico e sociale che va sotto il nome di ‘miracolo italiano’.

Mi capita di frequentare spesso Milano e questa esperienza mi convince sempre di più del fatto che dobbiamo leggere nell’emigrazione non solo le dolorose, talora tragiche, separazioni dei nuclei familiari, e la nostalgia indescrivibile della lontananza, ma anche l’orgoglio delle capacità dei nostri giovani, nuovi emigrati o figli di emigrati, di svolgere un ruolo di prestigio, quale che sia il lavoro che svolgono, nella realtà sociale nella quale sono inseriti.

A queste nuove generazioni Armogida vuole, oggi, offrire uno strumento che consenta loro di recuperare quella che egli chiama la ‘peculiare andreolesità’ attraverso “le cose e le parole” che spesso hanno dimenticate o, addirittura, mai conosciute.

Nella Prefazione Paolo Squillacioti, alunno di Armogida al Liceo Scientifico di Soverato, e ora Direttore dell’Istituto CNR – Opera del Vocabolario Italiano -, e da qualche mese Accademico della Crusca, rileva che la motivazione di questa indefessa attività di ricerca e di divulgazione, di cui questo Dizionario è testimonianza, sta nel sentimento di una perdita, che si teme irreversibile, ma che si prova a recuperare alla coscienza dei suoi concittadini di Sant’Andrea con l’obiettivo di interessare un uditorio più vasto e variegato.

E Squillacioti sottolinea anche l’originalità di questo ampio, – stavo per dire immenso -, lavoro, costituita dal fatto di essere non soltanto un vocabolario, ma uno strumento culturale stratificato, realizzato come forma di opposizione a un cambiamento dei sistemi sociali così repentino ed estensivo da mettere a rischio un sistema consolidato.

Armogida, infatti, pensa che la salvaguardia e la conservazione del patrimonio culturale, costituito non solo dal dialetto, ma dalla storia e dalla vita della gente di Sant’Andrea e di tutte le piccole comunità, nelle quali si è formata e vive la coscienza di valori da non disperdere, sia un dovere per chiunque abbia a cuore la sorte della nostra Italia.

Perché la cultura vera si costruisce elaborando memoria e tradizione nella ricerca di risposte ai problemi sempre nuovi di un mondo e di una società in continua trasformazione.

Con questo Dizionario, definito fin dalla prima pagina, Dizionario enciclopedico italiano-andreolese: il lessico, la lingua e il sostrato materiale e culturale della civiltà agricolo-pastorale del Comune di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio alla fine del secondo millennio, Enrico Armogida offre alla Calabria uno strumento per il recupero di una parte della sua storia e della sua umanità per costruire il suo futuro. Sant’Andrea A. dello Jonio, 2 aprile 2023 – Gerardo Pagano

2 – SALVATORE MONGIARDO

Nel 2008 ho presentato il Dizionario Andreolese-Italiano dell’amico Enrico Armogida in questa Sala Consiliare del Comune di Sant’Andrea, e poi l’ho ripresentato nel 2009 nella Sala della Protomoteca del Campidoglio a Roma, in una storica serata, con gran pieno organizzata dall’allora sindaco Maurizio Lijoi e dal compianto presidente dell’ARA Mario Codispoti. 

Già allora parlai del rimpianto come forza che riporta a nuova vita qualcosa che è passata: rimpianto, quindi, non come tristezza per qualcosa che non c’è più, ma come forza che ricrea quanto si pensava “passato per sempre”.

Quando Enrico mi comunicò che iniziava a fare un DIZIONARIO ITALIANO-ANDREOLESE, mi spaventò l’idea del compito immane che lo attendeva e cercai di dissuaderlo, ma inutilmente.

Ci sono voluti anni di lavoro solitario e pesante, che poi è finito nelle duemila pagine di questi due tomi. Revisione dopo revisione, Enrico si lamentava:

 Non ne posso più.

E io, per dargli coraggio: Sei arrivato alla lettera P, allora sei alla fine. Enrico:

Ma quale fine, solo per la lettera P sono duecento pagine. Ho seguito il primo Dizionario pagina per pagina, in questo secondo mi sono arreso alla lettera A per miei problemi di vista che ora ho superato. Graziella Pittelli ha preso il mio posto di revisore accanto a Enrico a Davoli nella tipografia Sudgrafica di Salvatore e Giuseppe Mantello, che hanno fatto questo splendido lavoro.

Fino a pochi giorni fa, mi chiedevo perché Enrico avesse scritto questo secondo Dizionario, e poi all’improvviso ho capito che Enrico inseguiva lo stesso scopo che io inseguivo con i miei libri, con la Nuova Scuola Pitagorica, con gli incontri e i sissizi che tengo in giro: noi vogliamo proporre al mondo un modo di vivere come quello che era praticato fino al secolo scorso in Sant’Andrea, anche se in condizioni di vita molto difficili.

Enrico con quest’opera ci dice che prima viene la lingua nostra, l’Andreolese, come espressione di un modo di vivere migliore dell’attuale, e poi viene l’Italiano.

È la stessa cosa che diceva Sandro Voci: I nostri avevano regole migliori di quelle del mondo di oggi, aggressivo, cafone, violento, che non ci piace.

Si può dire che siamo sognatori e anche nostalgici pieni di rimpianto, ma è proprio esso appunto che richiama a nuova vita il nostro piccolo mondo antico, il quale ci appartiene e al quale non vogliamo rinunciare.

Il padre di Enrico, Luigi, diceva a proposito delle migliaia di nostri emigrati: A me sembra cosa buona continuare a vivere qui.

E così ha deciso di fare anche Enrico, che non solo ha voluto vivere qui, ma vivere come suo padre, zappettando, potando e innestando nel fondo di Mangiagalline nel suo tempo libero.

Enrico non è come Corrado Alvaro o Leonida Repaci o Fortunato Seminara, che scrivevano della Calabria, ma poi vivevano e pontificano fuori, trasmettendo una immagine della Calabria arretrata e immutabile.

Enrico, invece, è riuscito a fare qui quest’opera monumentale che, come scrisse Orazio, durerà più del bronzo: Exegi monumentum aere perennius.

Voglio chiudere con un quadretto di vita reale di quando io avevo dieci anni: Enrico ha due anni più di me. Mia madre amava la campagna e a volte mi portava con sé a Tavasco, un fondo sito dopo Mangiagalline.

Accanto a noi c’erano due vecchi sposati senza figli, Sarvu d’a Posterara e moglie, il quale era stato in Argentina e mi raccontava le sue avventure in quel mondo lontano.

Quando io e mamma arrivavamo di pomeriggio, Sarvu e moglie stavano già per tornare a casa.

Allora mia madre mi mandava con loro: Porta tu il loro paniere, accompagnali fin dentro casa, metti il paniere sul tavolo, saluta ed esci. La loro casa era vicina alla Chiesa di Sant’Andrea, posta sopra il basso dove lavorava u vambacaru, lo scardassatore, che con una corda liberava ‘a vambaci, cioè il cotone, dai semi, i vambacùaspura, per prepararlo alla tessitura.

Mi vedeva passare Luigi, il padre di Enrico, e poi suo fratello, u cumpara Peppinu, padre di Alfonso e Andrea, miei futuri cognati. Arrivato al Vallone di Bruno, sentivo il suono che veniva dalla fòrgia di mio padre, dove lavoravano il ferro caldo a tre: dallàvano: mio padre con la mezza mazza, il maglio, e altri due apprendisti con le due grandi mazze: quella di pinna e quella di bolla. Din, don, nda,\ din don nda…

Quella strana parola dallare derivava dal greco [dai]dàllein, che significa lavorare con destrezza e con arte, come Dedalo: Henricus docet, Enrico insegna.

Il messaggio che Enrico e io abbiamo conservato e cerchiamo di portare avanti dice che c’è un ordine etico da rispettare, se vogliamo vivere in armonia, pace e benevolenza.

Il mio e il tuo agire, caro Enrico, è una rivolta etica, in questa Domenica delle palme che parla di pace, impossibile da raggiungere con le bombe atomiche e con tutte le armi esistenti.

Mio padre tagliò via il pugnale che era in mezzo alla corona di alloro nel monumento della Vittoria dedicato – il 1961 – dagli Andreolesi ai Caduti, dicendo: Basta guerre, basta armi!

Forse Enrico pensa che i suoi Dizionari siano un fatto di letteratura, come succede a personaggi che fanno un’opera più grande di loro.

L’opera di Enrico è, anzitutto, un appello etico a questo mondo che ha perduto la bussola e dice al mondo che a Sant’Andrea un tempo si viveva in pace, nel rispetto e nell’amore degli altri.

3 – ETIMOLOGIA DEL NOME CALABRIA di Salvatore Mongiardo

A maggio del 2015 andavo in macchina per isole e terraferma della Grecia con due amici ambedue di nome Mario: Mario Dominijanni e Mario Picchi. Per arrivare a Delfi, partimmo da Patrasso, costeggiando il Golfo di Corinto, quando a un certo punto c’era una indicazione stradale per una città chiamata Kalàbrita.

Noi eravamo partiti da Soverato in Calabria, e la curiosità ci spinse a deviare per Kalàbrita, per vedere cosa c’era in quel posto il cui nome richiamava la Calabria.

La strada era costeggiata da molte piante di ginestra che ci accompagnavano col giallo dei loro fiori. Alla fine della salita arrivammo a una cittadina di montagna, un posto di turismo soprattutto invernale, quando c’è neve in abbondanza.

Kalàbrita è per i Greci città martire della resistenza partigiana, perché il 13 dicembre 1943 l’esercito tedesco uccise circa cinquecento maschi.

Il giorno successivo le truppe diedero fuoco al vicino monastero di Agia Lavra, simbolo della guerra d’indipendenza greca dai Turchi.

Poi distrussero ventotto città, villaggi, monasteri e uccisero altre duecento persone. A Kalàbrita, inoltre, furono saccheggiate e bruciate circa mille case e razziati più di duemila capi di bestiame. È stato eretto un sito di commemorazione, Piazza del Sacrificio, dove le vittime vengono ricordate ogni dicembre.

Monastero di Agia Lavra.

Visitammo poi il bel monastero, dove c’erano solo due monaci, uno giovane, molto devoto alla forchetta e al cucchiaio, perché pesava forse duecento chili.

E uno vecchio ed esile, al quale chiesi spiegazioni sull’origine del nome della cittadina.

Il monaco rispose: Significa acqua buona, che fuoriesce, zampilla dalla terra o dalla roccia. In greco, difatti, calòs significa sia bello che buono. Gesù dice nel vangelo che egli è il buon pastore, che nel testo greco è calòs poimèn.

La seconda parte della parola Calabria, bria, deriva dal verbo greco bryo, che significa appunto sgorgare. In giro per la Calabria ho visto due cartelli con su scritto VRISI, con la lettera v invece di b, scambio comune anche in altre lingue come lo spagnolo.

Un cartello si trova vicino al platano centenario di Curinga, e l’altro prima di una galleria all’altezza di Chiaravalle Centrale  salendo per Serra San Bruno.

Mi sembra fuor di dubbio che Calabria significhi acqua buona, che sgorga da fonte viva.

Nella montagna di Sant’Andrea c’è un delizioso sito alberato con due fontane che si chiama Acquavona o Acquabona.

Salvatore Mongiardo, 7 maggio 2023

4 – SALUTISSIMI

Caro Tito, spero tanto che questa “lettera n. 467” venga gradita e resti utile, meglio se diffusa con un bel “passaparola”.

Noi ci aggiorniamo alla prossima n. 468.

Grazie e tanti cari saluti a te e ai nostri gentili lettori.

ITER-City, martedì 09 maggio 2023 ore 11.44 – Da oltre 55 anni (dal settembre 1967) il mio motto di Wita è “Fecondare in questo infinito il metro del mio deserto”. 

Foto  fornita dal prof. Enrico Armogida